Mentre
la scienza moderna continua a dirci che il cervello non legge il <non> e
non c'è corso di comunicazione che non lo ribadisca, all'inizio del
Novecento tutta la poetica di Montale prende le mosse dal negativo, anzi
dalla negazione, dal riconoscimento dei limiti umani, quelli del
poeta in primis. La poesia, infatti, sembra arrendersi davanti all'incertezza del
mondo, sembra incapace di risplendere come un "croco". La parola poetica
non può contenere la formula che "mondi possa aprirti". Il "non" è il segno grammaticale di una crisi più ampia che investe la coscienza dell'uomo contemporaneo ormai smarrito di fronte ad un modo sempre più complesso. Ma
del resto in un'Italia fascista, quei "non" forse erano le uniche parole
che potessero farsi portatrici di senso: il senso di un vuoto di valori, di
certezze. E allora Montale diceva "non chiederci", "non domandarci", perchè è più facile dire quello che "non siamo" , quello che "non vogliamo".
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
si qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia)
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