Era più che evidente il suo
nervosismo. Tra l’altro, quella di mordersi le unghie doveva essere
un’abitudine faticosamente conquistata. Forse aveva trovato il modo più veloce
ed economico, per quanto poco elegante, di rendere innocue le sue emozioni più
distruttive. Combatteva così i suoi fantasmi, implacabili nella puntualità con
cui si presentavano alla sua mente. Un’insistenza morbosa che consumava quelle
cellule umane fino alla radice, fino a farsi male. Eppure c’era qualcosa di
piacevole in quel suo auto cannibalismo contenuto.
Era seduto di fronte a me e avrei voluto più
di una volta interrompere quel lungo silenzio che accompagnò il nostro viaggio,
insieme per ben quattro ore. Strano pensare che fossimo compagni di viaggio.
Dall’esterno nessuno l’avrebbe mai pensato, non una parola, neppure per
sbaglio. Ci si guardava, sì, ci si
studiava, forse. Quel silenzio era voluto, da lui quanto meno. Il mio silenzio era
l’unica conversazione possibile. Leggeva a perdifiato appunti fitti e ben
costruiti, stralci di giornale stampati per poi sottolineare, cerchiare,
appuntare, disegnare frecce, come uno studente modello che si prepara ad
un’interrogazione importante. Lui doveva presentare un libro, chissà dove,
chissà in quale città. Aveva gli occhi
ludici, anche un po’ rossi. Probabilmente aveva trascorso la notte a prepararsi
per il grande giorno. Ed era evidentemente emozionato per quell’incarico.
Si trincerò tutto il tempo dietro
i suoi libri, i suoi fogli, e con una precisione metodica, quasi compulsiva, metteva
ordine tra le sue cose, nel suo mondo inavvicinabile. Gli altri due posti erano
vuoti ed io non avevo bisogno di
appoggiare alcunché. Il tavolino del treno, al centro dei quattro posti a
sedere, era quasi interamente suo. A destra aveva impilato con rigore, oserei
dire geometrico, una carpetta arancione, un quotidiano e due libri di diverso
spessore. Quello sotto non avrà avuto più di cento pagine. Un librettino,
insomma. Forse. L’altro, più verboso, sovrastava. A fianco il cellulare, pronto all’uso.
Con la
punta delle dita, lunghe, lunghissime, nodose e amaramente mordicchiate,
riallineava con cura ciascuno di quegli oggetti non appena l’uso ne alterava
l’equilibrio. Quelle dita conducevano la penna con perizia scolastica lungo le
pagine mentre la sua mente triturava insieme parole, pensieri e intuizioni.
Era
un uomo sulla sessantina, esile, con una figura slanciata per quanto fosse
seduto. Sul volto scavato, gli occhi chiari guizzavano schermati solo dalle
lenti e dagli scatti repentini con cui sondava il terreno intorno, come a
cogliere gli sguardi altrui, furtivi, curiosi della sua lettura. Erano i miei sguardi.
Sapeva che l’osservavo,
ma preferì trincerarsi dal pericolo di una conversazione velocizzando il ritmo
dei suoi gesti. Sotto il tavolo teneva i piedi stretti l’uno accanto all’altro,
tesi e veloci. Era un’agitazione compunta, composta, ma fervida.
Per entrare in quel mondo avrei
dovuto essere molto diretta, spezzare un velo sottile, quella della curiosità.
“Deve presentare un libro?” Oppure sconvolgendolo del tutto e andando dritto al
punto “Dove presenterà questo libro?”. Sarebbe stato divertente scoprirne la
reazione, ma non lo feci. Quasi quasi, quel suo isolamento ben congegnato mi
annoiava un po’. Ma così voleva e così avvenne.
bellissimo! :-)
RispondiEliminaBelloooooooo :) brava Gisella
RispondiEliminaGrazie!!!!!
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