di Davide Zanin
"Se è vero che gli individui perseguono incessantemente e senza compromessi solo il loro ristretto interesse personale,
allora la ricerca della giustizia verrà intralciata
a ogni passo
dall’opposizione di tutti coloro che abbiano qualcosa da perdere dal cambiamento"
Amartya Sen
I due testi riportati nel volume
della Laterza, una conferenza tenuta nel 1990 e un saggio del 1996, introducono
alla riflessione etico-politica del Premio Nobel per l’Economia (1998) Amartya
Sen. In centouno pagine ci si fa un’idea di quanto vasto e approfondito sia il
sapere dello studioso indiano che ha cercato, nella sua vita professionale,
soluzioni scientificamente fondate a problemi umani planetari quali la povertà
e la disuguaglianza sociale. Le sue proposte, in ambito politico ed etico si
fondano su studi decennali di economia e matematica (teoria dei giochi) e per
questo hanno una forza argomentativa che non troviamo nei testi di altri
sociologi famosi, analisti della globalizzazione.
Durante il XIX e XX secolo la teoria
liberale della Stato Minimo, (in
cui uno Stato garantisce la sicurezza
dei confini e l’ordine pubblico interno) è stata, con successo, messa in
discussione dalle rivendicazioni di cittadini e sindacati che chiedevano forme
di protezione sociale. La continua crescita economica e tecnologica consentirono
ai vari Stati di stanziare ingenti risorse per servizi quali la previdenza e la
sanità per tutti. Gli Stati (alcuni più di altri), insomma, furono spinti a
tenere in considerazione le ragioni degli individui.
Oggi sappiamo che proprio
durante gli anni ’90 tali ragioni cominciavano a perdere gradualmente diritto
di cittadinanza. In questo libro, Sen dice che le società devono impegnarsi,
prima di tutto, a favorire le libertà individuali: perché il non essere schiavi
dalla fame e dalla malattia è condizione necessaria per poter esercitare il
diritto individuale a partecipare alle decisioni della comunità. L’economia può
mettersi al servizio della libertà e dello sviluppo umano.
Quale autorevole economista non
allineato al mainstream, Sen distingue
tra conservatorismo finanziario e “l’estremismo
anti-inflazionistico e anti-deficit”. Esigenze dei bilanci degli Stati sono
quelle di non avere un debito pubblico troppo elevato e di tenere sotto
controllo l’inflazione. Obiettivi che un onesto conservatorismo impone affinché
l’equilibrio tra entrate fiscali e spese (per servizi, ad esempio) sia
sostenibile a lungo termine.
Uno dei
punti importanti, relativi alla questione sociale, di questo conservatorismo/liberismo
riguarda il fatto, o l’ipotesi, che una piena occupazione (cioè disoccupazione
nulla) sia raggiungibile solo con una politica di ampia spesa pubblica che
crei, “keynesianamente”, lavoro.
Sen
polemizzava infatti non con il liberismo in sé ma con l’indirizzo preso dalle
varie banche nazionali europee (la BCE fu creata dopo, nel 1998) che, insieme
ai Governi dei rispettivi Paesi, avevano puntato a “politiche monetarie e fiscali estreme, mascherate da [semplice] conservatorismo” (p.78) tanto che “l’impegno sociale teso a evitare una
disoccupazione non necessaria [aveva]
perso rilievo fra gli obiettivi politici perseguiti nell’Europa contemporanea”
(p.78). Il problema dell’occupazione, collegato
evidentemente al tema della povertà e della libertà dal bisogno, veniva spinto
ai margini del dibattito. Ne vediamo gli effetti oggi.
Queste ed altre considerazioni ci
rendono meno ingenui di fronte a determinate politiche di austerity e di
riduzione della spesa pubblica che vediamo attuate ad oltranza oggi in mezza
Europa: Sen fa capire chiaramente che non c’è una giustificazione
macroeconomica a che i tagli ai bilanci debbano riguardare i settori del
welfare e dell’istruzione quando altre voci come le spese miliari, la sicurezza
interna o il ripianare i conti di enti pubblici in perdita (quali le ferrovie o
le poste in alcuni Stati) sono considerate intoccabili. E’ una questione di
democrazia: “Mentre gli economisti
possono essere molto utili per spiegare e quantificare i costi e i benefici di
strategie alternative, le questioni di base possono diventare facilmente
oggetto di un dibattito che coinvolga tutti i cittadini.” (p.86) E che
certe decisioni siano prese dopo discussione pubblica, informata e libera dei
cittadini è condizione che definisce una democrazia. Ma una società democratica
è anche quella che lavora a promuovere la partecipazione (ovvero la libertà) di
quante più persone e a ridurre l’esclusione: “aumentare le capacità umane [di scelta] deve costituire una parte della promozione della libertà individuale.”
(p. 30). Per il lettore italiano sentire un economista perorare la causa della
“democrazia come partecipazione” sarà senz’altro una novità.
Un ultimo punto che voglio segnalare,
estrapolandolo da questo libro, è una piccola considerazione molto penetrante
legata alle disuguaglianze. Esiste un sofisma, che va smascherato, per cui se
la libertà dei singoli viene posta come valore superiore, Governi e Stati
possono essere certi di avere un comportamento formalmente etico quando si
limitano a soddisfare quelle richieste che vengono esplicitamente verbalizzate
da gruppi e individui svantaggiati. SI difenderebbero così “i loro interessi”. Tuttavia,
una semplice conoscenza dell’Uomo, libera da convenienti ipocrisie, rivela che “in circostanze di diseguaglianza e iniquità
di vecchia data, i diseredati possono essere indotti a considerare il loro
destino come inevitabile […], [e] di conseguenza imparano ad adattare i loro
desideri e piaceri, perché non ha molto senso continuare a struggersi per
quanto non sembra realizzabile” (p. 21). Non si cerca, cioè, di ottenere
qualcosa di cui non si conosce l’esistenza: che sia un ospedale efficiente, un
computer, un servizio di autobus che mi porti dal villaggio alla città… fino al diritto di votare, di cambiare
residenza per cercare lavoro… Sapere di avere un diritto, e che qualcun altro
magari già ce l’ha, è necessario per poter poi rivendicarlo. Focalizzandosi sul
tema dell’istruzione e della conoscenza come fattore di emancipazione, da
questo deriva che spesso “l’analfabeta […] non è particolarmente scontento del suo
stato e l’istruzione non rappresenta uno dei desideri più intensi [del
cittadino] che di essa è privato” (p.25).
E’ spesso la mancanza di mezzi, anche conoscitivi o culturali, a favorire l’autoperpetuarsi
di certe situazioni problematiche e degradate; infatti, come forse avrebbe
detto anche Don Milani, una scarsa istruzione finisce col precludere la partecipazione
a decisioni che potrebbero modificare in positivo il proprio destino: “l’analfabetismo costituisce una mancanza di
libertà, non solo una mancanza di libertà di leggere, ma anche una riduzione
dei tutte le altre libertà che dipendono dalle forme di comunicazione in cui è
necessario il possesso della capacità di leggere e scrivere” (p.25).
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Originario della provincia di
Treviso, sono uno psicologo clinico con specializzazione in disturbi dello
sviluppo infantile e disabilità. Dopo varie esperienze di lavoro tra Italia e
Inghilterra, ora mi occupo di Servizi Educativi presso il Comune di Trieste.
Lettore indefesso in stile “topo da biblioteca” amo anche scrivere e curo il blog Psicologiaeinterazioni.blogspot.com.
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