di Loris Gava
Vinitaly
2012: entro nel grande bazar del vino.
Vi sono
insegne illuminate che tracciano un nuovo concetto di immagine del vino, altre
che designano stand fedeli all’immagine di sempre, altre che rimangono scontate
e un po’ retrò e spiegano più di ogni
altra cosa l’idea di vino che hanno certi produttori.
Il mio è un pellegrinaggio
sterile, senza meta, e non ho tanta voglia di darmi agli esotismi possibili di
quel mare infinito. Sto lì nel più classico dei padiglioni, quello del Veneto;
nuovo per coloro che vengono da fuori, non certo per uno come me, veneto da
generazioni.
Mi soffermo e degusto un vino dall’annata improponibile, non per
il fatto che non sia degustabile, ma perché un ‘98 meriterebbe una sorte
migliore, una presentazione idonea. Se non per la qualità intrinseca, almeno per il
fascino del tempo portato alla mia attenzione.
Chi me lo
serve è una giovane di bella presenza, vestita, se non ricordo male, con una
sorta di tailleur nero, gentilissima, che si prodiga nel mescere queste annate
mitiche senza chiedermi troppe cose. E’ molto professionale, disponibile e lo
stand pullula di gente anch’essa ben vestita, concentrata, chissà, in qualche
corrispondenza elettronica con un possibile grande acquirente. E’ tutto perfetto,
non vi sono incongruenze. Lo stile è sobrio, la presentazione ineccepibile. Ad
un tratto il mio sguardo si sofferma sull’immensa litografia retrostante che raffigura
la bottaia. Il legno dei carati brilla, forse per l’effetto voluto dal
fotografo.
E’ tutto
così luminoso, etereo, ben fatto. Guardo ammirato la definizione della
litografia e ad un certo punto mi percuote il suono ossimoricamente visivo di
una perdita di vino che inonda la parte bassa del fondo di una barrique e crea
una macchia dai contorni regolari di colore vivissimo.
Un colpo nell’occhio, come si dice, e la mia testa comincia a
chiedersi, anche per l’effetto delle degustazioni, se quella imperfezione
rappresenti un colpo di genio - voluto dal fotografo per insinuare il dubbio negli
avventori osservatori- o una semplice e sacrosanta svista.
Non so
perché, ma per me era una semplicissima e trascurabile svista che dava, però, un
senso terreno e normale ad un contesto che ambiva alla perfezione.
Ah che
bellezza quella macchia color porpora sul fondo del carato, a decretar che
l’uomo è fallibile e forse, proprio per questo, così affascinante!
E
l’imperfezione giova al vino?
Non lo so,
anzi sono sicuro sia così; il grande problema è capire se questa preferenza sia
condivisa.
Ma la
condivisione avviene poiché vi è un “colui” che porta la propria impressione all’attenzione
di altri.
Comunque
sia, la condivisione risulta sempre complessa qualora ci si trovi di fronte a
delle annate particolari.
Quest’ultime sono un ossessione per coloro che “ ne sanno
di vino”. Tanti dicono che sono annate mitiche che verranno stappate per il
diciottesimo compleanno dei loro nipoti, altri che, di fronte allo stesso vino,
parlano di perdita di tempo.
Vagando in
preda a questi dubbi trovo, sempre nel padiglione 4, l’azienda Loredan Gasparini
e butto l’occhio per vedere se trovo Lorenzo Palla.
Non dirò
cosa penso di lui, direi cose troppo alte.
Mia
impressione e ancor più mia convinzione é che lui, nel vedermi, provi una sorta
di doppio brivido: il primo di piacere per il fatto che gli sto sempre alle
calcagna e che quindi mi piace il suo vino, il secondo di irrigidimento in
quanto, avendo un mio modo di pensare il vino, posso non essere del suo stesso avviso.
Essendo
occupato lo attendo e, gentilissima, la moglie, capendo che attendevo Lorenzo, mi
chiede se può versarmi qualcosa e con una cordialità frizzante aggiunge: <cosa desideri assaggiare?>, io
dico: <tutto!>. Non voleva essere la solita battuta da maratoneta della
degustazione, ma volevo assaggiare il suo Prosecco in quanto, conoscendolo, Lorenzo, non sarebbe stato per niente scontato, il Prosecco.
Ad un certo
punto si libera dal tavolino dov'era precedentemente impegnato e mentre
confabuliamo della sua esperienza friulana (produce i suoi bianchi nel Collio),
mi versa il Falconera 2008.
Il solo gesto mi aveva appiattito gli stimoli sia perché
assaporavo già l’effervescenza di un prosecco immaginifico, sia perché si
trattava di un 2008 che per me, e non solo per me, è considerato “l’annus
horribilis” dei rossi.
Un po’
dispiaciuto lo metto al naso, sembra sia ricoperto da un po’ di timidezza,
quasi a nascondersi, preambolo forse di una degustazione che si aprirà e come
un fuoco di paglia svanirà, lasciando spazio ai soliti commenti del tipo “ non male”, “ per l’annata è da considerarsi interessante”, “ha bisogno di tempo”. Tutti commenti detti senza convinzione e senza volontà di incidere
negativamente sull’autostima del produttore.
Ecco che si
apre. <Ora farà la sua grande comparsa e svanirà nell’anonimato>, pensai
laconicamente... (fine parte I).
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